21 Novembre 2022
Giornata internazionale degli Alberi
La giornata del 21 novembre 2022 è stata scelta per intitolare, nel Parco Mennea di Torino, alla presenza dell’Assessore all’Ambiente del Comune di Torino, Ing. Francesco Tresso, e di molti rappresentanti delle istituzioni, alberi da frutto di antiche varietà a due grandi ricercatrici, che hanno lavorato nel campo della micologia e patologia vegetale e della botanica.
Il ricordo delle due studiose, tratteggiato da chi le ha conosciute, è stato letto da Bruno Maria Ferraro, Tangram Teatro Torino.
Nella foto n.1 a sinistra Bruno Maria Ferraro, attore Tangram Teatro (letture sulle due ricercatrici) – Maria Lodovica Gullino – Francesco Tresso, Assessore al verde pubblico Città di Torino – Alessandra Aires, Vicepresidente Volo 2006 Associazione dei volontari delle Olimpiadi 2006 cofirmataria del patto di collaborazione per la gestione del parco Mennea – Elena Accati, già Professore ordinario di floricoltura all’Università degli Studi di Torino, autrice di un libro sulla figura di Eva Mameli Calvino – volontari delle associazioni, persone legate per ragioni diverse alle due ricercatrici, abitanti del quartiere.
Nella foto n. 5 Maurizio Ceruti, figlio della Professoressa Jole Ceruti Scurti, ha ricordato la figura di sua madre raccontandone la vita e le ricerche più significative.
JOLE CERUTI SCURTI
Un ricordo di Maria Lodovica Gullino
LA “SIGNORA”
Jole Ceruti Scurti era per tutti, all’Orto Botanico, “la Signora”. Arrivava il mattino, sorridente, salutava tutti quanti cordialmente, passava dalla stanza dei bidelli al piano terreno e prendeva due cestelli di tubi puliti che portava al piano superiore al laboratorio in cui si preparavano i substrati. Salutava la “Signora Manon” e saliva lievemente le scale, con i suoi due cestelli. Trascorreva le sue giornate tra lo studio, caratterizzato dal disordine tipico di chi lavora molto, il laboratorio adiacente, la cucina in cui si preparavano i substrati, le aule e la biblioteca. Solenni erano i momenti in cui si aprivano le ante della “micoteca” in cui erano custoditi centinaia di ceppi di fungi. Allo studio di moltissimi di quei funghi Jole Scurti ha dedicato la sua troppo breve vita. Estraeva con leggerezza le cassette in cui erano mantenuti i tubi con le colture fungine. Di ogni singolo ceppo conosceva vita e miracoli. Agli studenti più fidati ne affidava il trapianto. Ma soltanto dopo essersi sincerata della precisione nel lavoro. Ogni passaggio, flambata inclusa, era importante, per garantire la sopravvivenza delle preziose colture. La preparazione dei substrati (litri, ettolitri negli anni), il riempimento dei tubi, con la quantità giusta di malto, la loro inclinazione per la solidificazione dell’agar, erano momenti importanti. E poi il trapianto delle colture fungine, in quelle camere sterili in cui ci scioglievamo pure noi, tanto alte erano le temperature che si raggiungevano. E i tappi in cotone che dovevano essere perfetti, per garantire la sterilità, e anche eleganti. Quando si preparavano i tubi si stava attenti, perché i tappi dovevano essere perfetti, come aveva insegnato “la Signora”. Guai a farli a casaccio, ma nemmeno troppo fluffosi, che se no si sarebbero incendiati alla fiamma del bunsen. E poi il trapianto. Con attenzione massima. Perché l’inquinamento sarebbe stato un’onta intollerabile che ci avrebbe segnati a vita. Quanti litri di agar malto preparati, quante migliaia di tubi stesi, tutti belli, perfettamente allineati, come tanti soldatini. Ma inclinati invece che sull’attenti. A volte i tubi di malto erano così tanti che non si sapeva più dove stenderli! Quante cassette di colture fungine trapiantate! E quando proprio si era bravi, arrivava in premio, segnale di fiducia estrema, la cassetta dei funghi “dermatofiti” da trapiantare. Le preziosissime cassette, contenenti colture di funghi non così facili da maneggiare, non stavano con le altre, negli armadi della micoteca, ma in un mobile sotto il lavandino dello studio della “Signora”. Una collezione preziosissima, da affidare solo a mani esperte. E poi quelle bellissime esercitazioni, fatte nel vicino laboratorio. Noi a scoprire i segreti dei funghi che la “Signora” conosceva alla perfezione. Di ogni fungo ci raccontava la storia, le caratteristiche, il ruolo, un aneddoto. Alcuni erano pericolosi parassiti per l’uomo, le piante, gli animali, … altri erano invece microrganismi benefici. Dopo tanti anni, quante volte sono riecheggiati gli insegnamenti di quelle esercitazioni nell’incontrare nel mio percorso lavorativo un nuovo patogeno. E poi le lezioni. In cui si partiva con un tema. Ma poi tanto era l’entusiasmo e tale la conoscenza della docente che si spaziava all’infinito. Per fortuna le lezioni di Micologia avevano luogo nel tardo pomeriggio e si poteva sforare con l’orario. E nonostante i molti impegni Jole Scurti trovava sempre il tempo per ascoltarci, controllare i nostri risultati (che la entusiasmavano quando erano positivi), rivedere decine di volte i nostri scritti, stimolarci. Per ognuno di noi c’era sempre una parola gentile, un complimento, un incoraggiamento. E poi, la sera, tardi, la “Signora” scendeva, portando due cestelli, questa volta pieni di tubi sporchi da lavare. Nel 1980 il passo si era fatto più lento, affaticato. Ma il sorriso era sempre lo stesso. Questo è il ricordo mio e di tanti altri ex-studenti di Jole Ceruti Scurti: al di là del suo sapere affrontare temi di ricerca innovativi e interdisciplinari, nei lontani anni 1960 e 1970, temi che spaziavano dalla capacità di alcuni funghi di degradare molecole complesse, alla produzione di antibiotici di interesse farmaceutico e di micotossine, mi piace ricordare la semplicità, umiltà e gentilezza che hanno caratterizzato la sua vita, fino agli ultimi istanti. Perché la “Signora” è stata una vera signora, che ha trasmesso, soprattutto con l’esempio, disciplina e rigore, guidando e formando molti studenti che ora, a distanza di anni, la ricordano con grande affetto, simpatia e gratitudine.
EVA MAMELI CALVINO
Un ricordo di Elena Accati
Ero laureata in agraria da parecchi anni e svolgevo, nel lontano 1976, come quasi tutti agli inizi della propria carriera universitaria, un doppio lavoro, l’uno per “piacere’, la ricerca, l’altro per assicurarmi un introito. Negli anni sessanta era sorto l’istituto di Orticoltura e Floricoltura presso la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Torino. Presso questo istituto avevo svolto la tesi di laurea in floricoltura e qui ero rimasta occupandomi delle colture da fiore.
Il Direttore dell’Istituto, Prof. Pierluigi Ghisleni riteneva prezioso che si conoscessero di persona, quei maestri su cui ci si formava, leggendo e studiando. Così, un giorno mi sono trovata sul treno che conduceva a Sanremo, contenta, ma un po’ preoccupata per quello che avrei potuto e voluto chiedere a Eva Mameli. Non volevo sciupare niente di quell’incontro.
Le pareti di bougainvillea, l’azzurro dei convolvoli che si avvolgevano come liane, i muretti a secco, il verde grigio degli ulivi, le serre che ricoprivano una vasta porzione di collina mi parevano presenze familiari.
Eva Mameli aveva da poco compiuto ottanta anni. Viveva a Villa Meridiana, rappresentava per chi si occupava di floricoltura una sorta di personaggio mitico: aveva viaggiato molto, e si era occupata di numerosi settori della botanica, della biologia e della fisiologia, raggiungendo risultati assai prestigiosi. Lavorava regolarmente dalle sei alle otto ore al giorno, pur essendo ormai in pensione da otto anni.
“Il lavoro, la ricerca, la floricoltura sono state la grande passione mia e di mio marito” diceva e a me veniva in mente una frase di Primo Levi: “Amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione alla felicità sulla terra”.
Mi ha stupito la vivacità, la curiosità intellettuale della Mameli: non parlava di sé, ma poneva domande su quanto noi giovani del gruppo di Torino stavamo allora facendo a livello di ricerca in floricoltura. Dal canto suo mi ha raccontato che stava occupandosi della denominazione dei fiori coltivati e spontanei in diverse lingue: latino, italiano, francese, inglese, tedesco e spagnolo perché, aveva precisato, “Non abbiamo nella letteratura italiana un lavoro che riunisca nomi italiani e vernacoli delle piante da fiore, tanto meno abbiamo un vocabolario poliglotta che raccolga i nomi delle piante da fiore più comuni. Questo che mi sono accinta a fare sembra un lavoro modesto e noioso, ma a me, pare utile. Quindi, mi ha guidato lungo il giardino ne mostrava ogni angolo, commentando i fiori presenti in quel momento, le collezioni, illustrando la provenienza dei vari alberi.
Parlava in modo pacato e sereno, ma con grande autorevolezza. Si sarebbe potuto stare ore e ore ad ascoltarla. Ecco, tutto questo mi viene alla mente ora. Dato che non ho più pressanti impegni accademici, avendo raggiunto quella fase della vita in cui è possibile e piacevole coltivare liberamente i propri interessi e il tempo ha smesso di scorrere tanto veloce che sembrava non riuscissi ad afferrarlo, ho pensato di rivisitare l’intera opera di Eva Mameli. Ritengo che la sua personalità anticonformista e di forte temperamento, finora troppo poco studiata, a differenza di quanto avvenuto nel caso di Mario Calvino, suo marito, potrà essere di esempio e di stimolo sia per gli studenti, sia per giovani professionisti che operano nel campo della floricoltura, sia per coloro che amano la natura.
PENSIERI FINALI
“Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla se non la loro intelligenza”.
(Rita Levi Montalcini)
Le donne devono sempre ricordarsi chi sono, e di cosa sono capaci. Non devono temere di attraversare gli sterminati campi dell’irrazionalità, e neanche di rimanere sospese sulle stelle, di notte, appoggiate al balcone del cielo. Non devono aver paura del buio che inabissa le cose, perché quel buio libera una moltitudine di tesori. Quel buio che loro, libere, scarmigliate e fiere, conoscono come nessun uomo saprà mai.
(Virginia Woolf)