Agrifoglio #41

“Antonio Pascale non è solo un bravo scrittore, ma anche un bravo agronomo che vive e lavora a Roma come ispettore al Ministero delle Politiche agricole, forestali e ambientali. Il numero di Agrifoglio – newsletter che cura regolarmente per il Foglio che vi presentiamo, espone in modo molto chiaro e scientifico alcune delle tematiche affrontate da weTree nei suoi interventi. Antonio Pascale lo fa con competenza e con il suo stile arguto. E, dopo avere letto Agrifoglio, corriamo in libreria per immergerci nella lettura del suo ultimo bellissimo romanzo, La foglia di fico. Storie di alberi, donne, uomini (Einaudi editore).”

Maria Lodovica Gullino

Piantare alberi? Certo che sì, ma poi…

di Antonio Pascale

 

Un giorno sì e un giorno no si parla di alberi: quanti ne piantiamo? Un milione di alberi, dice Berlusconi, no, quattro milioni dice Bonaccini. Così finisce che un giorno sì e un giorno no sono felice per via delle suddette dichiarazioni.

 

Tuttavia poi finisce che passeggio e vedo uno che taglia un prato, privato o pubblico che sia. Domanda: perché tagliare l’erba con questo caldo? Arrivano le risposte: “Come perché? Ordine ci vuole, ordine! Cosa sono tutte quelle specie che crescono disordinatamente?” In realtà con questo caldo, con questa siccità, se non puoi irrigare, tagliare il prato significa condannarlo a morire (è logica: il prato non fotosintetizza, va in stress, deve ricostruire l’apparto fogliare perduto, non ha acqua a sufficienza e muore).

 

Poi delle volte capita che partecipo a un convegno e mi chiedono: piantiamo alberi? Certo che sì, un milione, no, quattro milioni, dieci milioni. Evviva, applausi. Poi certo, andrebbero irrigati e già qui qualcuno tra il pubblico si defila. Poi qualcuno annuncia: domani potatura. Arriva la potatura e potatura non è, ma semplice brutale capitozzatura e vedi questi magnifici Olmi trasformati in mazze di scopa, paesaggio rovinato, senso di morte e annuncio certo di futuri stress per la pianta, che sicuro diventerà ancora più debole e si ammalerà.

 

Episodi siffatti segnalano due equivoci duri a morire. Il primo: che la natura sia ordine, dunque fare più bello il pianeta significa nella sostanza tagliare il prato all’inglese, per renderlo coerente e ordinato. Un’idea di natura profondamente antropomorfizzata, addomesticata: un’ idea di natura stile paradiso terrestre perduto, dove – diceva Mark Twain nei diari di Adamo ed Eva- leoni e agnelli erano entrambe specie vegetariane e parlavano con noi e noi dormivamo tra le loro zampe, serpente escluso.

 

Finché questo equivoco durerà non ci sarà davvero salvezza, perché non ci sarà conoscenza delle dinamiche di un determinato ambiente, naturale o meno.
L’altro equivoco è nella vaghezza di certe dichiarazioni, per cui sembra che tutto sia facile, basta usare la formula magica: piantare un milione ma che dico, quattro milioni. Bene, bravo, bis. Ma un momento, ce l’abbiamo abbastanza terra? Mica vogliamo fare quelle tristi aiuole dove gli alberi non radicano a sufficienza e poi cadono al primo temporale. E chi irriga? Chi pota, chi cura, chi concima? Quali alberi? Mica sono tutti uguali? Mica so tutti utili? Soprattutto, sappiamo come si fa? O pensiamo che siccome la natura è di base un giardino ordinato e incantato poi si autoregola e in barba alle leggi universali darwiniane produce bellezza, ordine, diversità ecc. ecc., nonché agnelli e leoni che dormono insieme?

 

Chiedetelo a quelli di Pompei mummificati dalla lava, che effetto fa la natura.
Colin Ward diceva sempre che il pensiero utopistico si occupava di tre cose, la città, (come costruirla e per chi), i bambini e le automobili, come fare a non prenderle più: al centro ci sono gli alberi. Ma non basta la dichiarazione, è necessario occuparsi seriamente degli alberi.

 

I numeri della settimana
Quanti alberi nelle città?

di Valeria Cecilia

 

Prima l’Abc: la superficie boschiva in Italia è di circa 12 milioni di ettari. Sono tanti, infatti circa il 40% di tutto il territorio nazionale è boschivo. Si tratta di una delle percentuali più elevate d’Europa, ma come abbiamo visto nelle precedenti puntate, una parte di questi ettari altro non è che boscaglia strappata ai pascoli. Spesso impraticabile.

 

Anche i boschi vanno manutenuti, figuratevi gli alberi in città. Siccome le città, lo sappiamo, sono dei termosifoni, isole di calore, pensate a quanto caldo rilascia il cemento e l’asfalto non appena il sole va via, mettete il traffico, la densità abitativa, l’inquinamento capillare, aggiungete il cambiamento climatico, insomma avrete l’effetto inferno da tutti sperimentato.

 

È chiara a tutti ora la necessità di isole verdi, diffuse e salubri. A parte mitigare l’effetto isola di calore nelle città, in generale una maggiore presenza di foreste aiuterebbe a mitigare molti fenomeni climatici come le alluvioni, le frane, le ondate di calore e la cattiva qualità dell’aria.
Il Piano di forestazione del PNRR ha come obiettivo rinforzare i polmoni verdi delle grandi aree urbane, per contrastare l’inquinamento atmosferico, tutelare la biodiversità e allo stesso tempo garantire una migliore qualità della vita ai residenti.

 

A questo scopo sono stati stanziati 330 milioni di euro e all’incirca 6,6 milioni di alberi da mettere a dimora nelle città metropolitane nell’ambito, appunto, del progetto di forestazione – un obiettivo in linea con la strategia forestale europea, che prevede la messa a dimora 3 miliardi di alberi sul territorio europeo entro il 2030.

 

Comunque, nell’attesa che gli alberi diventino (tramite studio serio e indefesso) elementi fondativi delle città, e che per esempio i grandi palazzi ottocenteschi ministeriali romani si coprano di verde, così, giusto per dare il buon esempio, è bene segnalare che allo stato dell’arte, Genova è la città con la quota più elevata del proprio territorio ricoperto di alberi (72%).
Poi c’è Firenze, con una quota pari al 58%, e Reggio Calabria (48%). Mentre Roma risulta coperta da alberi per il 37% della sua estensione. All’ultimo posto si posizionano invece Venezia (4%) e Milano (11%).

 

L’intervista della settimana
Parliamo dell’isola di calore urbana con Andrea Cecilia, fisico, dottorando e associato al CNR – ISAC

di Antonio Pascale

 

Cos’è l’isola di calore?

 

L’isola di calore urbana è un fenomeno causato dall’urbanizzazione, che induce un microclima più caldo nelle città rispetto alle zone rurali che le circondano. In particolare questo avviene durante la notte quando la differenza di temperatura può raggiungere anche i 6 gradi centigradi. Infatti, gli elementi artificiali che costituiscono l’ambiente urbano possono assorbire, trattenere e produrre più calore rispetto a quelli rurali che vanno a sostituire.

 

Come si può mitigare?

 

Può essere smorzata incrementando le aree verdi all’interno delle città, tramite la costruzione di parchi, il collocamento di alberi sulle strade e l’uso dei tetti verdi. Si possono altresì utilizzare dei materiali di costruzione con maggiore capacità riflessiva della radiazione solare (in gergo scientifico, incrementandone l’albedo).

 

Isola di calore e cambiamento climatico sono collegati?

 

L’isola di calore è un fenomeno locale che si sviluppa all’interno delle città, ed è indipendente dal cambiamento climatico che avviene su scala planetaria. I due fenomeni tuttavia interagiscono, poiché la durata e l’intensità delle onde di calore estive sono in aumento a causa del cambiamento climatico globale, apportando estremo stress da caldo nelle città, dove già il clima è più caldo per via dell’isola di calore.

 

Miglior articolo
Piantate alberi sì, basta che ci sia terra

 

In questo articolo il professore Luigi Mariani ci ricorda quanto è virtuoso piantumare alberi a Milano, ma ci ricorda altresì che a Milano manca una cosa essenziale: la terra.

 

Ci spiega insomma che la realtà quotidiana degli alberi di recente impianto è molto grama, ogni estate ne muoiono in parecchi e devono poi essere ripiantati l’autunno successivo: attenzione alle chiacchiere – ci dice – e pensiamo più alle cose terra terra.

 

Come funziona
Ma la forestazione urbana? Un po’ mito, un po’ ecologia, un po’ necessità

Note tratte da un bel saggio di Mariella Annese, Mariavaleria Mininni e Maddalena Scaler

 

“Il ruolo della forestazione nella città nel dibattito attuale il tema della ‘forestazione’ risulta oggi molto performativo, perdendo a volte la ricchezza che questo termine contempla. Si tende a considerare l’atto del forestare una addizione ‘verde’, che non tiene conto della ricchezza e varietà degli elementi, delle azioni e combinazioni che entrano in gioco nelle fasi della sua formazione.

 

L’uso indiscriminato della parola ‘verde’ – riferito a tutto ciò che riguarda il mondo vegetale – banalizza le risposte alla crisi ambientale, distraendo dalla comprensione del senso profondo e del ruolo fondamentale delle piante e delle loro implicazioni viventi (Mancuso, 2021). La ‘verdolatria’ (Metta, 2019) ci fa sentire esonerati dall’indagare quali siano le forme migliori perché il progetto di forestazione si confronti con i temi della città contemporanei”.

 

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Testo tratto da “Paesaggi pionieri per contesti in trasformazione La forestazione urbana tra mito, ecologia e bellezza”.

 

Forse non tutti sanno che…
Non tutto è facile, purtroppo, figuriamoci affrontare con impegno il dolore

di Antonio Pascale

 

A volte penso la colpa sia tutta degli americani. Non c’entra il patto Atlantico che sottoscrivo con piena fiducia. La colpa è quel messaggio che passa attraverso le consuete, narrazioni, edulcorate, buoniste d’oltre oceano, siccome il tempo è denaro, vai con i tre atti e passa la paura. Non so se proposito di piante (in realtà funghi) avete visto la recente serie su Netflix tratta dal libro di Micheal Pollan, come cambiare la vostra mente – seguo sempre Pollan, perché è bravo, suggestivo, ma sempre un po’ impreciso sulle cose importanti.

 

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Alla ricerca della madeleine perduta
Anna Rita Rinaldi, amante della musica

a cura della redazione di Agrifoglio

 

Mi piacevano tanto le prugne che chiamavano “le cosce delle monache“. Non si trovano più. Erano gialle, strette e lunghe. A casa c’era poco da mangiare, avevo 5 anni ed eravamo in guerra. Ero a Cottanello, un paese così diverso dalla mia città, Rieti.

 

A Cottanello vivevo con i miei zii e i miei nonni, e vicino casa c’era un muro e poi un terreno, che era di quelli che abitavano sopra di noi. Avevano un albero di queste prugne, noi lo vedevano dal basso, prendevamo un bastone e facevano cadere le prugne. Sento ancora il sapore in bocca.